Ce l’avevamo fatta dunque: un traguardo agognato, sospirato, l’oggetto dei nostri sogni più reconditi e dei nostri inconfessati timori di tutta l’adolescenza.
L’ateneo!
Addio alle lezioni quotidiane rigidamente alle 8,30, alle interrogazioni imprevedibili ed alle tensioni di ogni mattina, addio ai batticuore e ai compiti in classe. E addio al vecchio, caro liceo, l’Augusto, testimone di tante illusioni, speranze, timori, trepidazioni, delusioni, esultanze, esaltazioni, grida, risate, pianti dirotti ed esplosioni di gioia, amori sbocciati, naufragati e decollati, testimone di vita pulsante.
Ci aspettava quindi l’ateneo!
Pensavamo di varcarne la soglia tra squilli di tromba dedicati idealmente ad ognuno di noi. Quando accadde a me, mi sentivo un elmo ateniese in testa ed ero pronto a sbaragliare eserciti di professori intransigenti.
Non sapevamo cosa ci attendeva.
Le lezioni iniziarono a novembre e l’impatto fu devastante.
Provai ad andare alla prima lezione di stechiometria e fui sommerso da un’orda urlante di gente che si lanciò all’arma bianca alla conquista di un posto in aula.
Alcuni, erano in fila addirittura dalle sei di mattina per la lezione delle otto. Altri si erano portati una sediolina pieghevole nella consapevolezza di non trovare posto a sedere.
Andate tutti a farvi fottere fu la mia reazione, e me ne andai via.
Non ebbero esito migliore le prime esperienze con matematica e fisica: mi chiedevo
perché quello si chiamasse il biennio di Chimica, visto che su tredici esami in due anni,sette erano di Fisica o di Matematica e Disegno!
Alla prima lezione di matematica, dopo aver guadagnato un posto in classe all’arma
bianca, rimasi solo quindici minuti: mi bastò sentir parlare di derivate (ma che roba erano le derivate, le componenti deviate di una setta?), di integrali (quelli davvero dovevano essere gli adepti di una loggia di fanatici estremisti!) e, soprattutto, di limiti che tendevano a zero o all’infinito (… altre sette esoteriche?) con epsilon piccole a piacere (... ma che razza di piacere era...?). Mi alzai di nuovo e me ne andai a Lettere, almeno lì capivo di cosa parlavano!
A Fisica andò ancor peggio: in quel caso mi ero alzato in ore antelucane e alle 7,50
finalmente entrammo, dopo che una decina di noi erano stati portati via in barella, una
collega era stata stuprata nell’androne, ed altre due avevano partorito sulle scale. Si
presentò una faccia-di-cazzo-avariato che più faccia-di-cazzo-avariato non avrebbe potuto essere, ed esordì: “Devo premettere alcune considerazioni. La prima: che pochissimi di voi arriveranno al secondo anno e ancor meno -moltissimi di meno- riusciranno a sbiennare.
La seconda: che nessuno può sperare di superare questo esame se non prova ad
assimilare in qualche modo il concetto di entropia, un qualcosa che ha capito solo il
sottoscritto e … Dio se esiste”.
“Ma vai a farti fottere!”, urlai alzandomi dal fondo dell’aula. Mi sedetti esterrefatto fuori
dall’Istituto di Fisica chiedendomi: ma in che manicomio sono finito? È questa, allora,
l’Università?
Ma, ancora non sapevo che quello era il meno: ci aspettava, in realtà, il sessantotto!
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