Il disegno generale della storia politica della Grecia antica è noto. Dopo un periodo di maraviglie, di cui sentiamo, sulle nostre palpebre e sulle nostre carni, la luce potente e radiosa, più che non riusciamo a intravedere i distinti contorni delle cose — il periodo cosiddetto miceneo —, la Grecia precipita in una penombra oscura, in un medioevo tormentoso e affaticato, dal quale riescono solo a trarla fuori le guerre persiane del secolo V: la prima e più nobile guerra, che quel grande popolo combattè attraverso la sua quasi millenaria esistenza. Allora finalmente la Grecia balza alla luce della storia, e tutte le vicende, che si erano venute susseguendo da più di un secolo, maturano i loro frutti prodigiosi. Ora la Grecia è un Paese, in cui ogni contrada, ogni città brillano di luce propria, chi per i commerci, chi per le industrie, chi per le lettere, chi per l’arte, e ognuna ha un’anima, una fisonomia, sua, che la distingue dalle altre e impone al barbaro mondo circostante il rispetto del nome ellenico. Due città — Atene e Sparta —, due Stati — la Confederazione ateniese e quella spartana — sovrastano sulle altre e sugli altri, e finiscono con lo scontrarsi in un lungo duello mortale, nel quale Atene soccombe e dopo il quale la luce della sua gloria e del suo genio comincia ad affiochire. Sparta tenta in uno sforzo supremo di unificare la Grecia, sovrapponendo ad essa la propria dura egemonia, ma non vi riesce. La Grecia, che pur soffre del suo particolarismo, quasi grettamente municipale, non tollera alcuna sovranità effettiva. La lotta contro l’egemonia spartana si prolunga a mezzo il secolo IV. In questo momento la Grecia, sempre scontrosa e ribelle, può dirsi distribuita entro il raggio di tre vaste egemonie: quella spartana, quella ateniese, quella tebana. Ma nel 338 essa è domata dalla ancor barbara Macedonia, tal quale l’Italia del secolo XVI subirà, riluttante, il morso e il giogo delle armi francesi e spagnole. La nuova sovranità si è appena stabilita, che la Grecia ne è tratta ad un’impresa gigantesca: la conquista dell’Oriente persiano. La Persia è invasa, sconfitta, schiacciata, travolta, e la Grecia dell’età di Alessandro Magno si piglia l’estrema vendetta delle onte subite al tempo di Dario e di Serse. Ma l’istante, che parrebbe segnare il culmine della sua fortuna, affretta l’ora della ruina finale. Morto Alessandro, la Grecia viene precipitata nel turbine delle guerre dei generali macedoni, e poi dei loro successori, che la devastano e dilaniano per circa cinquant’anni, fino al chiudersi del primo ventennio del III secolo a. C. Al placarsi di sì vasta tormenta, la Grecia si ritrova provincia di una delle giovani monarchie ellenistiche: quella degli Antigònidi, e ancora e sempre soggetta alla Macedonia. Ma niuno riconoscerebbe più nei suoi contorni l’Ellade di Temistocle o di Pericle. Il Paese soffre orribilmente; esso è, in tutte le sue membra, agitato da mali oscuri, di cui gli uomini ignorano il vero carattere. Invano, sconfiggendo la Macedonia, Roma la ridona a libertà. La Grecia continua a soffrire e a morire ogni giorno un poco. Lo spettacolo di questa tormentosa agonia è orribile: le città si combattano a vicenda senza nessuno scopo apprezzabile, e in ciascuna i cittadini si strappano, gli uni gli altri, gli averi, le carni, la vita. In qualche posto non si combatte, non ci si strazia più; si banchetta e gozzoviglia come all’ultimo festino. E si attende e si invoca il diluvio, la ruina estrema, che tutto abbia ad ingoiare. È Polibio, il grande Polibio, a descriverci i sintomi di questo oscuro e terribile male!
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