Il racconto ripercorre le tappe finali della terribile malattia che si è portata via l’amorevole Raffy. E’ poco più di una lettera d’amore. E’ poco meno che un velato atto di accusa nei confronti dei parenti e sì anche di una realtà, forse mal creata e mal impostata e quindi, sottaciuta forse, una ferma critica interrogativa a Dio.
E’, soprattutto, una struggente lode dell’amata figlia da parte di un padre disperato che ancora non sa perché non si sia ucciso.
Non è facile da leggere e forse non ne vale la pena, chi lo doveva leggere e non ha potuto farlo, è lei, che è volata via sulle ali del vento tempestoso e terribile della morte, regalataci, a noi tutti, senza eccezioni, da un Dio geloso. Ridotta a un pallido riflesso di se stessa, quasi inesistente, all’ultimo, consumata e raggrinzita in un simulacro irriconoscibile, tanto più incoerente che per altri, proprio perché confrontabile con quella tenera, forte, leggera, dinamica, splendente, cara creatura piena d’amore e di languida allegria che era Raffy, anzi, come dice il titolo, “miaRaffy”.
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